di Monica Grassi
Che cos’è il workalcholism?
La sindrome da dipendenza da lavoro altrimenti detto work-alcholism, rientra nella diagnosi dei disturbi ossessivi compulsivi.
Indica il comportamento di una persona che soddisfa il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente, talmente tanto da relegare o addirittura annullare ogni altro piano della propria vita sociale e familiare, con inevitabili conseguenze su se stessa e sui propri familiari.
Che si tratti di un problema è un concetto al quale si è giunti abbastanza di recente. Solo nel 1969 si registra il primo caso accertato di persona deceduta a seguito dello stress accumulato per il troppo lavoro. In Giappone.
E il termine work-alcholism viene coniato da Wayne Oates (medico-psicologo, 1917-1999) nel suo libro Confessions of workaholics: the facts about work addiction, solo nel 1971.
Fino a quel momento la cultura prevalente ammirava una persona dedita al lavoro che al massimo veniva definita stacanovista.
Non sorprende che nella popolazione comune questo concetto è rimasto ad oggi sostanzialmente invariato.
Ricordo personalmente di manager che, vedendo uscire un proprio collaboratore dall’ufficio alle 18, lanciassero battute del tipo “Mezza giornata oggi?”.
La situazione pandemica che ci accompagna ormai da un anno e la necessità di attivare modalità di lavoro diverse dalla presenza in ufficio hanno contribuito a rafforzare questo concetto.
Nei corsi di sviluppo delle competenze per lavorare da remoto che tengo ormai dal 2017, i partecipanti segnalano costantemente la difficoltà di dividere il lavoro dalla vita privata, lamentando di essere costantemente connessi e di controllare la posta elettronica anche durante i risvegli notturni.
Quando possiamo dire di trovarci di fronte ad un comportamento patologico di workalcholism?
Spence e Robbins (1992) definiscono il workaholic una persona “estremamente dedita al lavoro che si sente costretta o spinta da pressioni interne a lavorare ed è poco appagata da esso”.
La prima dimensione da prendere in considerazione è il tempo dedicato al lavoro rispetto al tempo di vita in generale. Un recente articolo del sole24 ore dedicato a questo tema indica che circa il 32% degli intervistati (giovani millennials) afferma di lavorare anche in bagno.
E, per quanto stravagante, mi risuona familiare. Ricordo di aver risposto al mio capo nel 2009, a quel tempo lavoravo in azienda, che aveva la pessima abitudine di urlarmi contro quando non rispondevo al telefono entro il terzo squillo.
Anche la filmografia propone spesso situazioni di questo tipo. Per esempio, nel film Workaholic del 1996 (regia di Sharon von Wietersheim) si racconta di una coppia non sposata e senza figli, dove il lavoro giustificato dal mantenimento di una certa ‘agiatezza economica di entrambi finisce per distruggere la loro relazione.
La seconda riguarda i pensieri. Si dimenticano anniversari e compleanni, le preoccupazioni riguardano esclusivamente questioni lavorative. Il pensiero è fisso sul lavoro. Il desiderio di successo, di appagamento è tale da generare una spirale di sempre maggiore impegno.
La terza riguarda lo scopo di vita. Chi vive nella condizione di work alcholism, non riesce ad immaginarsi oltre il lavoro. Non c’è progettualità rispetto a vacanze, festività, tempo libero o cambiamenti importanti nel ciclo di vita
In questa dimensione l’individuo si trova isolato rispetto agli affetti di familiari e amici.
Perde interesse negli altri e nella propria vita di relazione. Ha difficoltà a dormire, fa uso eccessivo di sostanze eccitanti per mantenere nell’arco delle ore lucidità mentale, mostra irritabilità. Necessita di avere le situazioni sotto controllo.
Le conseguenze possono essere anche molto gravi: isolamento, depressione, infarti cardiaci o ischemie fino all’estremo gesto di togliersi la vita.
Cos’è dunque che spinge le persone a questi comportamenti?
Le motivazioni possono essere estrinseche ovvero correlate all’ambiente di riferimento e/o intrinseche, dipendenti cioè dall’individuo e dai suoi meccanismi di funzionamento. In altre parole, l’ambiente può fornire pressioni verso la ricerca di alti livelli di performance.
Il libero accesso a strumenti e dotazioni tecnologiche consente alle persone di essere sempre connesse con “l’ufficio”.
Un contesto competitivo magari promosso proprio dal manager o da una cultura aziendale.
Le cause intrinseche sono connesse ai bisogni di affermazione, successo, potere che possono esprimersi per effetto della continua ricerca di conferme del proprio valore, il controllo maniacale dovuto alla paura di non essere all’altezza, non essere mai completamente soddisfatto di sé.
Robinson lo definisce come “l’’incapacità di regolare le proprie abitudini di lavoro ed eccessiva indulgenza nel lavoro fino all’esclusione delle altre principali attività della vita”.
Come uscirne?
Occorre costruire una rete di intervento che lavori su due livelli, quello del singolo work alcholist e quello dell’organizzazione.
Per quanto concerne il singolo, nella logica delle terapie brevi, intervenire su una sindrome di workalcholism dovrebbe prevedere una ristrutturazione delle percezioni e dei comportamenti andando a spezzare il legame perverso di appagamento-frustrazione tipico, ad esempio con una prescrizione paradossale.
Un altro intervento riguarda la cultura organizzativa, andando a sensibilizzare i managers e collaboratori nel preservare un buon worklife balance come, ad esempio, portare a termine il lavoro all’interno dell’orario di lavoro, distribuire correttamente i carichi di lavoro, le attività e le responsabilità.
Ancora si può prevedere un meccanismo premiante che affianchi alla logica prestativa del raggiungimento degli obiettivi anche i virtuosi comportamenti di completamento delle attività nei tempi ordinari, disincentivando una iper connessione.
Al contrario, potrebbero essere premiati interessi ampi e la partecipazione a programmi extra professionali.
In conclusione, è vero che il lavoro nobilita l’uomo, ma mi raccomando, praticate un “buon lavoro”.
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Bibliografia e sitografia
Allarme workaholism, i giovani lavorano troppo (il 32% lo fa anche in bagno) – Il Sole 24 ORE (Allarme workaholism, i giovani lavorano troppo (il 32% lo fa anche in bagno) – Il Sole 24 ORE) consultato in data 17/03/2021)
Workaholism: Definition, measurement, and preliminary results, Journal of Personality Assessment di Spence J.T., Robbins A.S.
Bryan E. Robinson. A Guidebook for Workaholics, Their Partners and Children, and the Clinicians Who Treat Them. New York University Press, 1998
Confessions of a workaholic: The facts about work addictiondi Oates W.
Gioacchino Lavanco, Anna Milio, Psicologia della dipendenza da lavoro, (in italiano) Roma, Astrolabio, 2006
W.E. Oates. Confessions of a Workaholics: the Facts about work addiction. New York, World Publishing, 1971
Andrea Castiello D’Antonio, Malati di lavoro. Cos’è e come si manifesta il Workaholism, (in italiano) Roma, Cooper, 2010